CARMELO BENE, UN' EREDITÀ SENZA EREDI

Di Antonella Ottai

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Carmelo Bene dichiarava di voler celebrare il proprio funerale da vivo, perché “non c’è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza”; con propositi simili ha chiamato “Immemoriale” la fondazione che deve occuparsi del suo lavoro. Dunque, non giubilare pubblicamente cadaveri, non tumulare l’opera nei monumenti alla memoria: per non decedere alla vita bisogna insegnarle a non concludersi fra nascita e morte. A pochi anni dalla sua scomparsa, il problema, almeno per me, non è quello di ricordare Carmelo Bene, ma di imparare a dimenticarlo; non è quello di riconoscere nella cultura contemporanea le tracce evidenti del suo esserci stato – teatro, video, radio, cinema, scrittura, drammaturgia, tutto si è “riperformato” al suo passaggio – quanto di disconoscerle. Vale a dire di sottrarsi all’investigazione genetica cancellando invece accuratamente, in quello che è, quello che gli somiglia, quello che, identificandolo, lo ripete.

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Carmelo Bene è un’eredità senza eredi (e non ci riferiamo con questo alle note vicende legali che hanno accompagnato la sua morte, dove invece gli eredi, per essere troppi, rischiano di compromettere l’eredità): “Non ha avuto maestri, non ha lasciato allievi”, scrive di lui Romeo Castellucci (in A CB. A Carmelo Bene, a cura di Gioia Costa, 2002). E forse avere un maestro, essere allievi significa proprio questo, trafficare con ciò che non replica e non si replica. D’altra parte la destrutturazione che ha sistematicamente condotto nei confronti dei rapporti di filiazione è la medesima con cui ha vanificato i sintagmi logico-temporali di causa/effetto, di prima/dopo, di vita/morte. Bene non poteva riconoscere fino in fondo un padre nemmeno in Artaud, che si era limitato a pensare e a formulare quello che invece lui è stato in grado di realmente praticare, e in qualsiasi campo decidesse di spendersi. Comunque è andato oltre i padri che si è provocatoriamente trovato.

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Un esempio: come è noto, Pinocchio –  mai concepito, mai nato – è una figura che lo ha accompagnato durante l’arco complessivo della sua carriera. Inizialmente Bene gli aveva dedicato anche un progetto cinematografico, mai realizzato ma di cui esiste la sceneggiatura elaborata insieme a Nelo Risi che avrebbe dovuto curarne la regia (1966). In questa occasione l’attore aveva richiesto la partecipazione di Totò, destinandogli però la parte di Geppetto: l’anziano attore, che era ancora la marionetta più popolare del teatro comico italiano, si sarebbe dovuto convertire al ruolo “umano” di padre putativo, lasciando al giovane Bene la parte che tradizionalmente gli competeva, quella di Pinocchio. È difficile immaginare una relazione paterna più paradossalmente eversiva e allo stesso tempo un’occorrenza teatrale più arcaica, in quanto, a ben guardare, nel registro grottesco in cui si declinava, la situazione conserva, dissacrate, le tracce dell’antica cerimonia della consegna delle maschere e del passaggio di testimone da una generazione di attori a un’altra: de-generare – dai generi e dai testi del teatro come dai padri – e rigenerare la scena e i ruoli in cui trascorre.

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Per questo si deve non credere ai padri, ai figli e alle storie che li coniugano l’un nell’altro. È logico quindi che, piuttosto che inseguire i frammenti in cui è esplosa nell’oggi la lezione di Carmelo Bene, piuttosto che constatare come siano cambiati i contesti storici, come siano venuti meno o come siano stati emarginati i tanti compagni di strada che hanno confortato e moltiplicato il suo percorso, occorra pensarne l’eredità. Anche nel lavoro della scrittura, la cui pubblicazione è stata di complessa gestazione e alla quale ha voluto sempre soprassiedere, chiedendo alla forma del libro di prestarsi, tipograficamente, a contenere, come racconta il suo editor “quella Voce, quei Gesti, quegli Sguardi che ci lasciano increduli e stranamente, dolcemente ci accarezzano in un vortice “perturbante” che è quello di chi non è nato e non è morto, vissuto prima e dopo la Storia, per sempre” (Elisabetta Sgarbi, A CB. A Carmelo Bene).

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Ed è una scommessa aperta se dalla pagina voce e gesto accarezzino solo il lettore o se mai possano ridirsi nel “morto orale” della scena, come pochissime volte è accaduto. Intanto occorre insegnare alle attese che ci accompagnano a teatro a configurarsi diversamente: non è facile ritrovarvi il senso del troppo, la dismisura dell’eccesso, lo sgomento della perdita, la fatalità della presenza, la paura davanti a una realtà anteriore alla coscienza che affondava con clamore ogni intelligenza spettatoriale e spossessava la mente da qualsiasi intenzione di perseguire significati, squassandola di inaudito. “Beati voi che potete essermi spettatori!”, si lasciva sfuggire Carmelo in una delle sue ultime apparizioni, prima di consegnarsi al pubblico come un dono spaventoso e irreversibile, dove la generosità con cui si spendeva interdiva la possibilità dello scambio, sia pure simbolico. “Invidio chi potrà ascoltarmi”. Beati coloro che hanno goduto la sua esorbitanza, ma anche dannati in partenza alla perdita.

 

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