FRANCESCO DE GREGORI, LA POESIA
Il vetro si è perso per strada, ma i Pezzi sono rimasti. "Pezzi di stella, pezzi di costellazione, pezzi di amore eterno, pezzi di stagione". Siamo a pezzi, e un caro vecchio amico è venuto a trovarci proprio per dircelo, con un album di poesia formato canzone, con un canestro di parole nuove che scavano dentro e di chitarre dobro e di slide guitar e di ritmo medium rock e di voce in primissimo piano e di un paio di ballad che lasciano il segno ("Parole a memoria" e "Le lacrime di Nemo"). Pezzi che arrivano giù giù in fondo all'anima, vicino alla memoria collettiva dei quarantenni di oggi, dove già ci sono altre strofe, altri ritornelli, altri frammenti musicali firmati De Gregori. A comporre la sua personalissima colonna sonora degli ultimi 30 anni di storia italiana, dove però in molti, quasi tutti, ci riconosciamo. Tasselli, brandelli, tocchi, spuntature di un'unica, grande, immensa canzone composta da centinaia di sovrapposizioni di centinaia di altri pezzi, dove i percorsi individuali e collettivi si mescolano e rimescolano come i colori spalmati sulla tavolozza da un pittore di versi.
Una tavolozza sporca e nitida, opaca e trasparente, dove ognuno può ci si può specchiare e ogni amore si può riflettere. Perché i testi di De Gregari mettono a nudo i passi falsi, gli errori, i lapsus, le incertezze e le debolezze (le sue e quelle di chi ascolta) attraverso immagini letterarie crude e pure. Immagini che sanno di vero, a cui è impossibile sottrarsi, benché oniriche o ai limiti dell'astrazione. Immagini a cui è impossibile non "credere", al punto che non si smetterebbe mai di ascoltarle o riascoltarle. Fino a che dentro quegli stessi scenari e a quelle stesse cornici non ci ritroviamo, a piedi giunti, pure noi. Pezzi come da foto, anzi da film: Mediterraneo "ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore" o da karaoke, tipo La donna cannone e Ma come fanno i marinai. Da hit parade come Rimmel, Generale, Buffalo Bill, Piano bar ... Pezzi indelebili: Viva l'Italia. Comunque pezzi e nel senso più nobile del termine, mai discorsi, mai teoremi, mai giudizi, mai clichè. Certo di acqua ne è passata da quando Francesco solo soletto e sedicenne si esibiva al Folkstudio di Roma o quando qualche anno più tardi (1974) durante la trasmissione Adesso musica interpretò Niente da capire.
Più panza e meno capelli oggi, ma stesso sguardo, stessi accenti, stesso finger picking più un disincanto ancor maggior di allora e l'aura serena e dolce di chi non ha nulla da dimostrare.Un principe con la chitarra a tracolla, che emana regalità ogni volta che si avvicina al microfono e ogni volta che non appare in televisione. O, massimo dell'understatement, quando invece decide proprio di apparire, per duettare con l'ex partner Antonello Venditti. Un principe che fugge a gambe levate da stereotipi ed etichette e che continua a non amare oggi come non amava ieri l'esser definito poeta o peggio cantautore. Perché a volte in nome della poesia si liquidano contenuti più complessi."È facile sbarazzarsi di Piero Ciampi dandogli del poeta, ma non è vero" (Piero Ciampi, Canzoni e poesie). E cantautore, invece, perché è una parola bruttissima, che non rende l'idea, punto e basta. Forse per questo preferisce imitare Bob Dylan (nei modi), che essere, paragonato a Eugenio Montale (nei fatti).Con la sua band sembra sempre (e con gioia) fare il verso alla Rolling Thunder Revue, e quando si avvicina all'armonica, è quasi un omaggio allo Zimmermann di Duluth.
Per non parlare della fotografia in quarta di copertina dell'ultimo album; una collezione di chitarre stese sul tappeto cinese, che sembra appartenere più a Robbie Robertson che all'autore di Alice. Del resto, già nel 1975, tra le pagine chiare e le pagine scure, rimaneva anche un organo hammond zuccherino quanto quello di Al Kooper in Like a Rolling Stone. Come dargli torto? Dylan è un pezzo unico. Chissà in quanti negli anni '60, invece di diventare architetti, avvocati, giornalisti o impiegati, si sono gettati a mani basse nella musica ispirati proprio dalle sue canzoni. Due nomi su tutti? John Lennon e Luciio Battisti. Quindi, se la cosa vi imbarazza, lui di certo non se ne cura. Ma De Gregori è anche figlio (artisticamente parlando) di Fabrizio De André, con cui collaborò negli anni '70, e insospettabilmente "padre" del reci-divo nazionale Vasco Rossi che ammette: "È stato ascoltando una canzone di Francesco De Gregori che ho provato per la prima volta i brividi che dà la poesia...".
È quello che succede anche oggi ascoltando il suo ultimo album, dieci canzoni dove passato remoto, presente progressivo e futuro anteriore sono una cosa sola. Un treno che arriva da lontano, con tanto da vedere dentro e tanto da guardare fuori dal finestrino. Vagoni, canzoni, capsule temporali, dove la memoria sfuma nell'attualità, e le emozioni invitano alla riflessione interiore, o meglio ancora a buttare via la chiave, girare i tacchi, chiudere gli occhi e ad andare in Africa, come dovrebbe (secondo De Gregori) fare Celestino. Un disco venato di blues e arrangiamenti on the road e tramonti messicani e palme e zucchero e miele e cani e lacrime e polvere e sale e fumo. Con tutte parole che avremmo cantato e tutte le canzoni che avremmo parlato, se non fossimo stati così a pezzi.