Traviata, follia d'amore
Il 6 marzo 1853, al Teatro La Fenice di Venezia, la prima della Traviata fu un fiasco. Il romanzo "La Signora dalle Camelie", da cui era stato tratto il libretto, era una storia vera e molto scabrosa per quei tempi: parlava della relazione fra l'autore, Alexandre Dumas figlio, e la cortigiana Marie Duplessis (da lui ribattezzata Marguerite Gautier), morta di tisi in età giovanissima.
Le Camelie del titolo altro non erano che un segnale: la signora le portava sempre con sé e di solito erano bianche; nei cinque giorni al mese in cui la signora era, diciamo così, "indisposta" (e dunque indisponibile per gli uomini), erano rosse. Al romanzo, pubblicato nel 1848, seguì una versione teatrale nel 1852. Verdi la vide subito a Parigi, ma aveva già letto il libro.
Ecco la trama dell'opera, ambientata a Parigi al tempo allora presente, ossia la metà del XIX secolo (ma trasportata all'inizio del Settecento per volere della censura). I nomi, rispetto al romanzo, sono cambiati. Alfredo Germont, giovane di buona famiglia, conosce Violetta Valery, la mantenuta del barone Douphol, malata di tubercolosi, e se ne innamora perdutamente.
La donna non è portata a relazioni serie, men che meno al vero amore, e inizialmente rifiuta - non molto convinta, a dire il vero - le avances di Alfredo: per lei non c'è che una vita, quella del piacere, e lo proclama cantando la famosissima "Sempre libera degg'io folleggiare di gioia in gioia" che conclude il primo atto. Nel secondo, apprendiamo che poi ha cambiato idea e che con il giovanotto si è addirittura messa a convivere.
E non è tutto: lo mantiene lei. Ma i soldi durano poco, specialmente perché il barone ha smesso di mantenerla, e Violetta è costretta a vendere i suoi oggetti di valore per pagare i debiti. Quando Alfredo viene a saperlo, ha un soprassalto di dignità, decide di pensarci lui ed esce di casa. Con perfetto meccanismo teatrale, appena lui è uscito torna Violetta e riceve la visita dell'indignato signor Giorgio Germont, che le chiede una cosa enorme: lasciare Alfredo.
Perché? Perché ha un'altra figlia, "pura siccome un angelo", che sta per sposarsi. Ma se si venisse a sapere che suo fratello convive con una mantenuta, il suo matrimonio andrebbe a monte. Davanti a queste ragioni così biecamente borghesi, Violetta dapprima resiste ma il vecchio Germont è diabolico. La sventurata finisce per cedere e, credendo di fare il bene di Alfredo e della sua famiglia, lo lascia con una lettera, senza potergliene dire la ragione. L'acutissimo dolore di Alfredo si trasforma presto in rabbia e rancore.
La sera c'è una festa a casa di Flora, un'amica comune. Ci sono tutti, c'è anche il barone Douphol e c'è persino Giorgio Germont. Alfredo e Violetta erano stati invitati insieme e arrivano separati. Prima lui, che finge indifferenza e si mette a giocare al tavolo verde vincendo una somma enorme (ovvio, è sfortunato in amore); poi lei, al braccio del barone, visibilmente piena di angoscia. Vuole parlare con Alfredo e lo invita in un luogo appartato: deve in qualche modo giustificarsi e dice di aver giurato di lasciarlo "a chi dritto pien ne avea", senza nominare suo padre.
E chi ne aveva diritto? Forse Douphol? Sì, geme lei non sapendo più come uscirne. Dunque l'ami? Altra menzogna: ebben, l'amo. Non l'avesse mai detto: Alfredo chiede l'attenzione di tutti e le getta addosso la borsa dei soldi appena vinti. "A testimon vi chiamo che qui pagata io l'ho". Violetta sviene, il padre rimprovera Alfredo e il barone lo sfida a duello.
Terzo atto: Violetta, sempre più malata di tisi, è a letto in fin di vita, tristissima, disperata, mentre fuori, nelle strade di Parigi, per terribile contrasto, si festeggia rumorosamente il carnevale. Ha appena ricevuto una lettera da Giorgio Germont, che in seguito al suo gran sacrificio ha cominciato ad avere stima di lei. Le notizie sono buone: in duello Alfredo ha ferito il barone e, soprattutto, ha saputo dal padre la verità. Si trovava all'estero, ma sta tornando a Parigi per accorrere al suo capezzale.
"È tardi!", questo il doloroso commento. In poco tempo arrivano Giorgio e Alfredo Germont nella stanza della povera Violetta. I due amanti si scambiano effusioni e fanno propositi di andare a vivere lontano, ma è tutto così forzato, si vede benissimo che Violetta sta morendo. Giorgio Germont si commuove e si pente amaramente: "Oh, malcauto vegliardo! Ah, tutto il mal ch'io feci ora sol vedo!". Violetta muore, cala la tela.
Come già detto, fu un fiasco. Le ragioni sono essenzialmente due. La prima è che, secondo la morale imperante, non c'erano distinzioni: comunque la si volesse chiamare, mantenuta, prostituta, donna di facili costumi, Marie Duplessis o Marguerite Gautier o Violetta Valery che dir si voglia era pur sempre considerata una donna di malaffare, per definizione priva di scrupoli e di sentimenti, incapace di amare, indegna di essere amata, immeritevole di essere rappresentata sulle scene.
Anche se nell'Europa dell'Ottocento donne di quel tipo erano inserite nel tessuto sociale, per quanto i benpensanti rifiutassero l'idea. Il pubblico borghese dell'epoca si sentì un po' scandalizzato da quel soggetto, che era in definitiva una critica diretta contro l'ipocrisia della società. La seconda ragione è legata alla prima: per fare accettare un soggetto così insolito e imbarazzante, ci sarebbero voluti interpreti perfetti. Il pubblico non era maldisposto, anzi aveva applaudito il primo atto.
Ma il casting, curato dalla direzione del Teatro La Fenice senza consultare Verdi, era stato pessimo: nella parte di Giorgio Germont c'era Felice Varesi, un baritono che aveva visto giorni migliori e che, in più, mostrava di non amare il personaggio. Come Alfredo, il tenore Ludovico Graziani era bravino ma inespressivo. Infine nella parte di Violetta c'era la sig.ra Fanny Salvini Donatelli che, per quanto ottima vocalmente, era incapace di recitare e cantava sempre al proscenio, senza alcuna mise en situation.
Oltre a ciò, la Salvini Donatelli era clamorosamente fuori ruolo perché aveva 38 anni (troppi per una giovanissima mondana) e perché era grassissima, ossia improponibile per rappresentare chi sta morendo di consunzione. Questa grottesca mancanza di physique du rôle fu con ogni probabilità la principale causa del fiasco: a metà del secondo atto il pubblico cominciò a ridere e si placò solo alla fine dell'opera. Alla prima seguirono altre nove recite, tutte più o meno con lo stesso esito.
L'anno dopo, con alcuni cambiamenti al secondo atto e soprattutto con un cast all'altezza, l'opera fu riproposta ancora a Venezia ma al Teatro San Benedetto, e questa volta trionfò. Successo sudato da Verdi, che in ogni caso doveva già avere personalità da vendere per la scelta di un soggetto così forte, sgradevole per il perbenismo e il senso del pudore dell'epoca. Probabilmente quella scelta fu considerata una sgradevole critica, una denuncia fastidiosa, un inopportuno realismo, un affronto.
Ma già nel 1854 la straordinaria bellezza della musica, grazie a migliori interpreti e a una messa in scena intelligente, finì per prevalere. Trascinato dal successo della Traviata, Alexandre Dumas fece del suo romanzo una seconda edizione con qualche modifica, lasciando però intatta la versione scenica. Non è nota l'opinione di Dumas sulla Traviata, ma si può ragionevolmente ritenere che fosse simile a quella di Victor Hugo sul Rigoletto: diffidenza iniziale, poi entusiastica ammirazione. Lo spunto di una vicenda molto commovente viene trattato con genialità drammaturgica e con straordinaria forza espressiva, grazie a una musica che resta subito impressa nella mente.
Verdi ha quarant'anni, il suo stile è già inconfondibile, maturo ma fresco, pieno di vigore: sempre nel 1853 compone altri due drammi in musica, Rigoletto e Trovatore. Saranno, insieme alla Traviata, la cosiddetta "trilogia popolare", forse ancora oggi le sue opere più famose, e segneranno la sua definitiva consacrazione.
Luigi Maria Prisco