Gianni Schicchi, l'opera buffa
Fate mente locale. Divina Commedia, Inferno, canto XXX: tra i falsificatori di persona è citato Gianni Schicchi, cavaliere fiorentino del Duecento. Un quadro a tinte fosche. Pensate, poi, al compositore italiano che ha fatto versare fiumi di lacrime per le tristissime vicende di Manon, Mimì, Butterfly e Tosca. Puccini e l'Inferno Dantesco. Cosa poteva uscirne? Strano a dirsi, una delle più fresche opere comiche della storia della musica.
Atto unico: Firenze, 1° settembre 1299. Buoso Donati, nobile ricchissimo, è appena morto e i suoi parenti lo piangono tutti intorno al letto. "Ti piangerò per giorni e giorni", dice uno. "Giorni? Per mesi!", fa un altro. E ancora: "Mesi? Per anni e anni". "Ti piangerò tutta la vita mia". "O Buoso, Buoso, tutta la vita piangeremo la tua dipartita". Ipocriti! Stanno pensando all'eredità.
Ma uno di loro comincia a dire che forse non sono proprio loro gli eredi, perché l'altro giorno un tale ha detto "se Buoso crepa, pei frati è manna: diranno pancia mia fatti capanna". Possibile? Bisognerebbe vedere il testamento, ma non lo si trova. E allora Simone, il più vecchio, dice una semplice verità: "se il testamento è in mano di un notaio, chi lo sa, forse è un guaio; se però ce l'avesse lasciato in questa stanza, guaio pei frati ma per noi speranza!".
Tutti i parenti, che cinque minuti fa stavano versando finte lacrime, ora mettono sottosopra la casa. Ed eccolo, quel benedetto foglio di carta. Quello che si temeva è vero: Buoso ha lasciato tutto ai frati dell'Opera di Santa Reparata. Come fare? Qualcuno lancia l'idea di rivolgersi a Gianni Schicchi, un borghese famoso per la sua intelligenza, per la sua conoscenza delle leggi e per la sua astuzia.
C'è chi non lo vuole: non è nobile e appartiene alla "gente nova", ossia non è originario di Firenze: insomma, è un parvenu. Ma Rinuccio, che fra l'altro è fidanzato con Lauretta, la figlia di Schicchi, convince i parenti che tanti artisti e scienziati, pur appartenendo alla gente nova, hanno fatto ricca e splendida Firenze. E poi l'aveva già fatto chiamare. Arriva Schicchi e, sapendo che lo disprezzano, dapprima si rifiuta di aiutarli ("A pro di quella gente? Niente, niente, niente!").
Ma Lauretta lo implora così bene ("O mio babbino caro") che riesce a intenerirlo. Schicchi mette in moto le sue celluline grigie e pensa, pensa, pensa. Nel frattempo arriva il medico, e Schicchi imita perfettamente la voce di Buoso da dentro la stanza, pregando il dottore di non entrare e di lasciarlo riposare. Tutti si spaventano, la voce è tale quale, il dottore se ne va.
Ecco la soluzione: nessuno sa che Buoso ha reso il fiato? No. Benissimo, nessuno deve saperlo. Il morto viene portato via e Schicchi indossa la sua camicia da notte, con la cappellina e la pezzuolina. Nella penombra non si nota nulla. E qui viene il bello: si manda a chiamare il notaio perché venga a raccogliere il testamento.
Ma prima Schicchi avverte tutti che c'è una legge severissima: "Per chi sostituisce se stesso in luogo d'altri, in testamenti e lasciti, per lui e per i complici c'è il taglio della mano e poi l'esilio. Ricordatelo bene: se fossimo scoperti, la vedete Firenze? Addio Firenze, addio cielo divino, io ti saluto con questo moncherino e vo randagio come un ghibellino". Grande timore dei parenti.
Entra il notaio, con due testimoni: tutti e tre ci cascano. Ogni "erede" va da Schicchi e gli propone una lauta ricompensa per farsi lasciare i pezzi forti dell'eredità: la casa, la mula e i mulini di Signa. A tutti Schicchi dice che ci sta. Ma al momento buono, dopo aver disposto alcuni legati trascurabili, lascia a se stesso la casa, la mula e i mulini di Signa fra le proteste soffocate dei parenti che, a quel punto, sono terrorizzati al pensiero di essere scoperti come complici.
Uscito il notaio, Gianni Schicchi sbatte tutti malamente fuori da quella che ormai è casa sua. Restano solo Rinuccio e Lauretta, che si potranno sposare e abiteranno lì per sempre. Il protagonista fa un commento finale parlato: "Ditemi voi, signori, se i quattrini di Buoso potevan finir meglio di così... per questa bizzarria m'han cacciato all'inferno, e così sia. Ma con licenza del gran padre Dante, se stasera vi siete divertiti, concedetemi voi l'attenuante".
Il Gianni Schicchi fa parte di un "Trittico", insieme a due atti unici di tutt'altra atmosfera, l'uno tristissimo (Suor Angelica) e l'altro drammatico (Il Tabarro). Delle tre, è l'opera che ha avuto più successo. Talvolta viene rappresentata da sola o in abbinamento con altri atti unici. Si possono estrapolare pochi pezzi chiusi: "Firenze è come un albero fiorito", cantata da Rinuccio per tessere le lodi della gente nova, e "O mio babbino caro", cantata da Lauretta per convincere suo padre ad aiutare i parenti di Rinuccio.
Una romanza bella, dolce, orecchiabile e facile da cantare che ogni soprano ha messo nel suo repertorio. Piacevolissime sono le scene d'insieme: la concitata ricerca del testamento, la vestizione di Gianni con gli indumenti del morto, i tentativi di corruzione.
Geniale la scena del testamento davanti al notaio. Per interpretare questo ruolo è necessario un grande baritono che sia anche un grande attore. Fra tutti quelli che hanno o cantato bene e recitato male o viceversa, spicca il grandissimo Tito Gobbi che canta e recita divinamente e che per nostra fortuna ha lasciato una testimonianza discografica della sua arte.
Il testo del Gianni Schicchi è di uno dei più proteiformi intellettuali del Novecento: Giovacchino Forzano, fiorentino, era avvocato, giornalista, drammaturgo, regista cinematografico e librettista. I suoi versi, pieni di verve e di freschezza giovanili, forse hanno suggerito qualcosa a Puccini, quasi alla fine della sua carriera ma mai stato così fresco e giovane.
Luigi Maria Prisco