Il Capestrano, un vero abruzzese a Milano

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Da milanese amo l'Abruzzo e ho nostalgia delle belle giornate, sempre troppo poche, passate a Penne e in altre zone delle province di Teramo e di Pescara. Ho trepidato per l'Abruzzo nel 2009, come si può fare solo se i sentimenti sono autentici.

Conosco la cucina dell'Abruzzo perché è, in parte, anche la storia della mia famiglia. Mio padre è stato ufficiale degli alpini, con il Battaglione L'Aquila ha combattuto sul fronte russo e ne ha ricavato, al di là dell'esperienza terribile, un patrimonio di relazioni umane che definire commoventi è poco.

Dopo la ritirata, fatta tutta a piedi fra combattimenti, freddo, fame, sofferenze indicibili, il legame è sempre rimasto e si è trasformato nell'amicizia più bella che si possa immaginare. I rapporti sono stati intensi con i reduci (pochissimi, purtroppo) e con le loro famiglie, ma anche, all'inizio, con le famiglie dei caduti a cui si doveva confermare che il loro figlio non sarebbe più tornato.

L'affetto e l'ospitalità degli alpini di mio padre si è concretizzata, fra l'altro, in abbondanti e assai vari omaggi alimentari. Quando negli anni '60 andavamo in Abruzzo tornavamo a casa col baule della nostra Flaminia Pininfarina che stentava a chiudersi.

Dentro c'era di tutto: formaggi, salami di varie dimensioni e fogge, anche sott'olio, prosciutti di montagna, un intero tacchino alla canzanese, bottiglie di passata di pomodoro, verdure fresche, peperocini, pezzi di carne di agnello, ferratelle, damigianette di vino generosissimo, olio extra vergine (quando a Milano si conosceva l’olio d’oliva e basta) e chi più ne ha più ne metta.

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Quando poi anch'io ho fatto l'ufficiale al Battaglione L'Aquila, il reparto era di stanza a Tarvisio (Ud) ma tutti avevano portato qualcosa da casa e si riusciva comunque a fare bisboccia. Questa lunga premessa valga a far capire che in fatto di cucina abruzzese posso dire la mia, che l'ho frequentata come se fossi uno di loro (ma forse lo sono) e che non sopporto di vederla interpretata male.

Sono stato al Capestrano con un amico. Era una serata di pioggia e nel locale eravamo in pochi. Com'è andata? Così: abbiamo gustato un tagliere di salumi con complemento di pecorino. Tutto fresco, di qualità ottima e soprattutto rigorosamente autentico. Conosco bene i sapori originali, e non mi posso sbagliare. Quando il grasso è candido come la neve, si capisce subito che il salume ha le carte in regola.

Abbiamo provato il prosciutto marsicano e una varietà di salami, piccanti e dolci; poi la famosa ventricina del Vastese, ma soprattutto la salsiccia di fegato (in Abruzzo si usa di più dire "salciccia"). Come accompagnamento, del buon pane appena abbrustolito che abbiamo chiesto e ci è stato subito portato.

E veniamo agli arrosticini, per me un piatto-culto. Me li ricordo come se fosse oggi: avevo sei anni e credevo che mi volessero offrire un gelato. Avvicinandomi al carretto, però, sentii un aroma di carne arrosto e rimasi a bocca aperta nel vedermi offrire uno spiedino di carne succulenta e saporitissima.

Da allora (era il 1961) gli arrosticini mi sono sempre rimasti nel cuore. E quando passo dalle parti di Penne faccio una puntatina a Villa Celiera, dal mitico Erasmo D'Andrea, il cui locale è soprannominato addirittura "Università degli Arrosticini".

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Per inciso, D'Andrea è un alpino: lo vedo tutti gli anni alle adunate nazionali, intento a preparare arrosticini per gli alpini del gruppo ANA di Villa Celiera. Purtroppo anni fa è stata vietata agli ambulanti la somministrazione di arrosticini, per motivi di igiene. Peccato, però. Ci saranno anche ottime ragioni, ma io ne facevo scorpacciate a ogni angolo di strada, sono ancora vivo.

Oggi si ha paura di tutto, e la paura si traduce in dolorosi divieti. Per non farla lunga, dirò che gli arrosticini del Capestrano vengono proprio da Villa Celiera, cosa che ho saputo solo dopo averli mangiati e apprezzati (insomma: non sono stato condizionato). La cottura è a puntino, non eccessiva, come piace a me: ben rosolata fuori e morbida dentro.

Abbiamo anche provato un contorno, una specie di millefoglie di melanzane e mozzarella. Non mi ricorda niente che io abbia mangiato in Abruzzo (ma non posso conoscere tutta la cucina abruzzese); ottima comunque. Il Montepulciano d'Abruzzo "Marina Cvetic" 2007, con cui abbiamo pasteggiato, ci è stato servito con cura ed eleganza, versato in un decanter che gli ha permesso di sprigionare tutto il suo aroma.

Poi abbiamo concluso con la "pizza dolce", un dolce al cucchiaio che gli abruzzesi mangiano nelle ricorrenze, specialmente per festeggiare compleanni. Si tratta di una specie di zuppa inglese, meno bagnata e anche meno alcolica, più sostanziosa. Avrei potuto scegliere il parrozzo, ma è molto sostanzioso e lo spazio nel mio stomaco era già quasi finito.

Fino a qualche anno fa la parola "arrosticini" diceva poco ai milanesi; poi ho cominciato a vedere all'Esselunga confezioni di arrosticini perfettamente squadrati, tagliati a macchina (per la verità c'è chi lo fa anche in Abruzzo) e confezionati con carne di agnello. 

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In certi casi persino di maiale e addirittura tacchino (anatema!). La carne da usare è tassativamente di pecora, decisamente più saporita: io li ho visti fare a Villa Celiera, a mano, da donne che tagliavano pezzi grossi e irregolari da quarti di pecora.

Chi non li ha mai assaggiati, faccia quest'esperienza: ne vale la pena, davvero. Il cibo è un simbolo di affetto, la cucina è un complemento, o quantomeno un surrogato del senso materno: ricevere queste cose è un piacere fondamentale della vita che va costantemente ricercato.

Ed è un sommo piacere l’ospitalità affettuosa e mangereccia degli abruzzesi: chi ha la fortuna di averne come amici godrà di questo privilegio e andando al Capestrano avrà quasi la sensazione di essere in Abruzzo; chi non ha legami con l’Abruzzo, ne provi la cucina e – ci scommetto – gli verrà voglia di andarci per fare amicizia con qualcuno.

Luigi Prisco


Il Capestrano
Via Gian Francesco Pizzi, 14
Milano
Tel. *39 02 56 93 345
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