DON ALFONSO IACCARINO: NON ABBIAMO IMPARATO ANCORA NIENTE
Fu lo scrittore e sceneggiatore statunitense Gore Vidal a portare Ancel e Margaret Keys a pranzo al Don Alfonso 1890, la prima volta. Livia e Alfonso Iaccarino se lo ricordano bene. Fu un giorno d'estate del 1980. Per i due coniugi americani, teorici del mangiar sano per vivere sano, fu un'epifania. Mentre il loro anfitrione si lanciava in verbose dissertazioni, assaggiavano tutto in silenzio e prendevano appunti. A quella tavola la teoria assunse la concretezza della prassi. L'epidemiologo e consorte fecero esperienza delle proprietà medicamentose di un piatto di Spaghetti pomodorino e basilico. E a quel primo, molti ne succedettero, dal momento che Ancel e Margaret al Don Alfonso diventarono di casa: della Dieta Mediterranea che avevano tenuto a battesimo, avevano trovato la patria e i santi protettori.
È un ricordo che ad Alfonso Iaccarino - in questi giorni di epidemie ed epidemiologi, di clausure forzate, di silenzi rappresi in stanze cariche di preoccupazione e conversazioni nell'etere - si rimesta nella mente come latte nella zangola. E s'infuria. Anzi s'incazza. «Sono passati quarant'anni, ancora non abbiamo imparato niente, niente!», sbotta. «Io ero e resto convinto che la Dieta Mediterranea rafforzi le nostre difese immunitarie, e invece siamo diventati bandierine al vento. Smascherati nella nostra fragilità da un virus con la corona».La voce si alza di un tono, e poi un altro in rapida sequenza: «Prodotti surgelati. Conservati. Non stagionali. Di questo ci nutriamo. Le mense: chi fa 100mila pasti al giorno, non può usare olio buono. Al più proteine animali, ma quali animali? I polli che crescono in 60 giorni, ingrassati di steroidi e vomitati sul mercato.
È giusto questo? Io lo chiedo alla scienza da anni. Ma nessuno mi risponde. Il grano duro pugliese maturato al sole da cui una volta facevamo le farine e quindi il pane, oggi lo compriamo dal Canada non prima che abbia subito un paio di passate di glicosato e diserbanti. E poi tutti quanti ci sediamo alla mensa delle multinazionali che ci servono pane, biscotti e pasta pret-à-porter. La carne, la carne prima era l'alimento dei ricchi, oggi è diventato l'alimento dei poveri. Perché non si fa uso di lenticchie, fave, cicerchie. I mangimi prodotti dagli scarti industriali degli allevamenti intensivi oggi nutrono orate e spigole di allevamento, perché a noi il pesce azzurro non ci piace più. Idem per le mucche, una volta mangiavano erba, le abbiamo fatte diventare carnivore perché mangiano quegli stessi scarti».
Che c'entra? I coniugi Keys direbbero che con la vulnerabilità di un mondo paralizzato da un virus, c'entra eccome. E lo stesso dice lo scienziato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, spiegando numeri alla mano le connessioni fra l'insorgenza di nuove epidemie e la riduzione della biodiversità del pianeta dovuta all'azione dell'uomo, prendendo nota della "assoluta irrilevanza che i dati sull'estinzione delle specie hanno sulle nostre decisioni, se paragonati ad altri indici quali il Pil, l'Euribor, il Nasdaq". Il punto è che quando il ciclone parte, prende tutti indiscriminatamente. Come l'avanzare della Xylella in Puglia, che va colpendo anche gli uliveti portatori sani di certificazioni bio. Così il Covid-19.
Uccide anche Luis Sepúlveda. E paralizza l'angolo di paradiso fra Positano e Sorrento, a Sant'Agata sui Due Golfi. Il Don Alfonso, che avrebbe dovuto aprire ad aprile, naturalmente resta chiuso sine die. «Abbiamo 50 dipendenti – spiega Livia – che per fortuna possono usufruire di un prolungamento della disoccupazione, per i collaboratori fissi che ci accompagnano tutto l'anno siamo dovuti ricorrere alla cassa integrazione. Mentre l'ufficio continua a rispondere alle mail e alle telefonate che continuano ad arrivarci da tutto il mondo. Niente segreterie telefoniche, qui da noi, né trasferimenti di chiamate così poco professionali. Continuiamo a garantire il contatto diretto con i nostri ospiti, anche se questo ha un costo che rischia di diventare insostenibile».
Pausa, Livia prende fiato. Non recidere i contatti. Non licenziare i contadini. Primum vivere, sempre Mancuso. E se rimanessero senza lavoro, i contadini «ne morirebbero. Così come senza di loro morirebbe Punta Campanella». Il giacimento aureo di prodotti che alimentano la mensa del Don Alfonso arriva da lì. Dalle terre abbandonate trasformate in un giardino che farebbe invidia alla Royal Society, che Alfonso e Livia acquistarono da ragazzi mettendosi contro le rispettive famiglie, convinti che fare agricoltura sana, giusta, pulita, equivalesse a fare la loro parte nel mondo. Livia riannoda i ricordi e le si annoda la voce in gola. Anzi, si strozza. «Non lo so cosa faremo, non lo so. È difficile. Sotto l'aspetto umano.
Quand'anche ci danno il permesso di riaprire, se arriva un portatore sano che mi contagia i ragazzi o gli altri ospiti, io che faccio? Mi rendo complice di questo flagello che miete vite umane?». «Riapriremo non prima di avere certezze sanitarie – è Alfonso Iaccarino, a ritrovare la voce per due – e in quel momento, sono certo, ci sarà talmente tanta necessità di rivivere che un posto come questo sarà una meta naturale, ne sono certo. Ma non è questo il punto. Il punto è cambiare musica. Perché non si fanno dei test sulle persone che vivono secondo natura? E non si mettono a confronto con chi vive nelle realtà industrializzate?».
L'interrogativo è sospeso, ma il finale è come l'aria del Don Alfonso, croccante come le mele annurche prodotte a Punta Campanella, tirate a lucido coi panni di stoffa come fossero argenteria o le pesche, spazzolate col pennello perché non perdano il pelo. Frutta che non si lava, perché coltivata su terreni che da trent'anni non vedono l'ombra di un diserbante o di un concime chimico. «Dobbiamo tornare alla terra, all'agricoltura», ripetono a una voce che suona presaga, più che luddista. «Il peggio che ci possa capitare è di avere tirato su il necessario per sopravvivere».
Don Alfonso 1890
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Pubblicato dalla Newsletter di Identità Golose 581 del 28.04.2020, a cura di Sonia Gioia.