L'Ulivone di Canneto il più antico d'Europa
Sette metri di diametro alla base. Trenta di circonferenza alla chioma. Quindici di altezza. Duemilaseicento anni di vita. E ancora oggi, otto quintali di olive l'anno (fino a milleduecento, qualche anno fa). L'aspetto maestoso, forte, da invincibile: quello di una pianta sana e rigogliosa che resiste e "vegeta" quasi a dispetto della sua vetustà.
L'Ulivone (così si chiama, meritatissimamente!) di Canneto Sabino, in provincia di Rieti, in piena Sabina, l'antica terra, da sempre, dai tempi della Roma imperiale, a forte vocazione agricola, è quel che si dice un grande spettacolo della natura. Pianta patriarcale, gigante arboreo come non ce n'è, è ritenuto a ragione l'ulivo più antico d'Europa.
Un record da non credere, anche se pure pressoché "certificato" dagli scienziati agronomi: non è infatti, così semplice, né del tutto "matematico" calcolare gli anni effettivi delle piante di ulivo, che non sono, per intenderci, come quelle di pino, abete, larice, dove basta tagliare in basso il fusto e poi contare uno ad uno i famosi "anelli": ognuno, appunto, un anno di vita.
L'ulivo, ci spiega il preparatissimo e appassionatissimo Arnaldo Pieroni, autorità del settore oleario e responsabile del Consorzio di Tutela dell'Olio Extravergine Sabina Dop, ha una struttura differente, i canali linfatici che si espandono in tutte le parti del tronco: non è, dunque, nemmeno sempre possibile, né facile, stabilire quale sia il fusto originario.
Se l'Ulivone è, comunque, il re incontrastato di quella che già Ovidio definì l'Arva Ulivifera Sabinae, qui, come raccontano anche Strabone, Varrone e Galeno (che considerò quello sabino, l'olio migliore al mondo), di ulivi grandi, maestosi e soprattutto fruttuosi, è pieno, pienissimo. E di centenari e millenari, ce ne sono diversi: un altro in particolare, quello di Palombara Sabina, vanterebbe anche lui oltre duemila anni.
Tutt'intorno, lo spettacolo lo fa dunque il patchwork di ulivi piantati a macchia tra le colline, a lunghi filari nelle pianure, a distese ombreggianti tra le vallate. Ulivi dappertutto, senza soluzione di continuità, a riempire l'avvolgente giardino paradisiaco posto lungo i fianchi del Tevere.
Da queste impagabili geometrie agresti, viene fuori innanzitutto (oltre, naturalmente, tanto buon vino, frutta, verdure e graminacee varie) l'oro verde, il nettare, l'elisir che da millenni fornisce energia, economia e senso stesso alla vita (e alla tavola) di chi vive ed opera da queste parti.
Dal punto di vista organolettico, si sa per certo che l'extravergine della Sabina è altamente benefico per la salute, tra i migliori in assoluto per profumo, gusto, colore (è stato tra i primi ad avere il riconoscimento Dop).
Da quello economico, considerata la quantità di prodotto, il numero di frantoi attivi e di quanti ci lavorano, in rapporto anche all'indotto agrituristico e non solo, l'impatto positivo di ulivi e olio cresce e raggiunge proporzioni notevoli, seppur sempre relative in un mercato vasto.
Bene sta allora facendo la Camera di Commercio di Rieti coi suoi continui progetti di promozione della produzione olearia e del territorio e con i risultati che stanno via via crescendo.
L'Ulivone di Canneto di Fara Sabina, dinanzi al quale si giunge a seguito di un bel su e giù tra le verdi colline che attraversano Magliano, Collevecchio, Montebuono, Selci, Fara, e per via di Passo Correse se si vuole ammirare dall'alto l'intero scenario bucolico, è diventato giustamente un grande e ineguagliabile attrattore turistico.
Un "momumento" da sightseeing, da vedere necessariamente come il Colosseo a Roma e la tour Eiffel a Parigi, però tra i più inaspettatamente intriganti (è qui, come detto, da duemila e seicento anni, ma se ne scopre la grandiosità e unicità solo da poco).
Onore, rispetto, venerazione dunque per questo albero, con gli apprezzamenti doverosi e convinti indirizzati contestualmente a chi a quest'Ulivone-ciclope di tutela ne ha po(r)tato e ne po(r)ta ogni giorno: e cioè al signor Rocco Aldo Bertini, titolare dell'omonima azienda agricola, novello Laerte della Fara\Itaca, nel cui terreno sono piantate le profonde radici di questa pianta-Polifemo (che, per fortuna, nessun Ulisse ha ancora ridotto a tizzone ardente).
Gli ossequi all'Ulivone son ben dovuti, se consideriamo la sua capacità di aver resistito al tempo, alle avversità, alle guerre che da queste parti sono state tante e feroci, all'inclemenza di pioggia, grandine e fulmini, e per il fatto che non ha fatto mai mancare i propri generosi frutti per il "Dop" ricavato dai custodi\contadini, che nel tempo, per anni, per secoli, e per due millenni, hanno ricambiato l'attenzione curandolo, sfrondandolo, potandolo, rimondandolo, diradandolo per farlo respirare e inondare dalla luce.
Se il Dop è il marchio che distingue la produzione assolutamente legata ad un territorio e alle sue peculiarità distintive di eccellenza tutelate da disciplinari che regolano e sorvegliano le piante di ulivo, l'ambiente, la filiera, la maturazione, la raccolta e la molitura delle olive, al cuore di questo superbo olio laziale c'è dunque l'Ulivone di Canneto: padre, nonno, avo, epigenesi di tutti gli atri.
Un Dio-ulivo. Una pianta-matusalemme dalla lunga storia (si fa risalire esattamente all'epoca di Numa Pompilio, re di Roma tra il 715 e il 673 a.C. e originario della Sabina) e dal forte valore biblico\simbolico.
Un figlio arboreo di Gerusalemme, dell'orto del Getsemani trapiantato in Roma si direbbe, forse, per un seme portato e volato via nelle pieghe del vestito di un centurione (una nostra suggestiva invenzione).
E se l'Ulivone, giustamente, oggi si visita, si apprezza e si celebra "ontologicamente", per quel che è da sempre, per l'essenza e lo "spirito"che rappresenta, un deciso salto nella metafora, nell'iperbole, nella memoria riflessa allo specchio e rimbalzata nell'altrove, nell'au-delà e nel non-so-che, si compie, invece, visitando il certamente originale Museo dell'Olio della Sabina, nella vicinissima Castelnuovo di Fara (980 abitanti).
Allestito all'interno dello storico Palazzo Perelli, regala un'esperienza provocatoria (come deve essere l'arte contemporanea) suggestiva e inattesa.
Poco o nulla, del classico percorso dei ricordi nel bel tempo artigiano che fu, tra mole di pietra trainate da asini bendati, presse, macine, molazzi, torchi, viti giganti, grandi dischi di fibre vegetali. Invece, ecco soprattutto allestimenti-performances artistiche sul tema, naturalmente, dell'olio, dell'ulivo, del legno.
Rami in bronzo. Sezioni di tronco come sculture. Sculture come alberi. Lumi a olio in piccole piroghe mosse dalla corrente dell'aria al fondo di una grotta allagata.
E poi l'Oleophona (la musica dell'olio) opera di Gianandrea Gazzola (compositore sperimentatore e collaboratore, non a caso, di un mito come Luciano Berio): una macchina musicale che produce suoni, o meglio, gorgoglii, con tonalità indefinite e ancestrali, e sempre comunque nuove grazie ad un complesso congegno elettronico di barre metalliche fluttuanti che abbracciamo, rimbalzano e percorrono il corpo silenziosamente vibrante del tronco che gira costantemente su se stesso, come un "albero" meccanico di un carillon.
Un bell'esempio, comunque, al di la di ogni opinabilità, di come ci sia sempre spazio per l'ingegno e la creatività, e del fatto che il nostro immenso patrimonio storico, artistico e naturalistico italiano, attenda proprio questo: nuovi modi (e nuove menti) per essere fatto conoscere, apprezzare e fruire.
Roberto Messina
Museo dell'olio della Sabina
Viale Regina Margherita, 02031
Castelnuovo di Farfa (RI)
www.culturalazio.it/musei/castelnuovoDiFarfa/